Sinossi

In questa sezione potete leggere una breve descrizione del lavoro contenuto nel saggio, suddiviso per capitoli.

SINOSSI:

Il saggio verte sull’analisi delle strutture e dei processi presenti sul fondo della nostra società che arrivano ad influenzare costitutivamente i membri della stessa. Nello specifico per quanto riguarda tutti quei meccanismi che generano, saldano e perpetuano atti e prese di posizioni dominanti e discriminanti. Il tutto è intrecciato a diverse testimonianze ed esperienze di attivisti di molte organizzazioni differenti (WWF, ENPA, Arcigay eccetera) con lo scopo di esortare ad agire e abbattere le discriminazioni a partire dalla quotidianità di ognuno di noi.

Il lavoro si suddivide in tre capitoli ognuno con il suo scopo:

Il primo capitolo sarà suddiviso in due parti. Nella prima analizzeremo la struttura della società e la sua forza influenzante, muovendoci dalle considerazioni di Goffman. Dopodiché ci sposteremo sugli studi di Bion in merito alla psicologia dei gruppi, sottolineando come essi siano più della semplice somma dei membri e come, perciò, siano fortemente responsabili non solo dell’istaurarsi di mentalità, pensieri e ideologie all’interno della società, ma anche come fonte di influenza degli individui appartenenti al gruppo stesso. Passando infine al rapporto presente tra il soggetto/Io e l’insieme/Noi, focalizzandoci sul concetto di “riconoscimento sociale” messo in luce da Honneth, come necessità del soggetto di sentire dagli altri un’adeguata e costante approvazione/accettazione, e “psicologia rigida”, come condizione che spinge verso atteggiamenti manichei e quindi dualistici. Tutto questo, chiaramente, incentrando l’attenzione sui risvolti discriminatori prodotti e amplificati da essi. Nella seconda parte del capitolo sposteremo lo sguardo sulle dicotomie alla base delle discriminazioni sociali. Studieremo la loro origine, storia ed evoluzione nel corso del tempo. Le tensioni emotive radicate in esse, principalmente violenza e paura, e come quest’ultime siano responsabili della creazione delle stesse. Successivamente esamineremo l’abitudine come strumento dicotomico volto al saldamento, nel tempo, di determinati dualismi e atteggiamenti discriminanti. Sfociando in tre caratteristiche, legate alla routine, che non solo plasmano agenti discriminatori, ma li rendono veri e propri difensori di tali comportamenti così consolidati e ripetuti: l’acriticità, il timore e la pigrizia. Il tutto ponendo alcuni parallelismi con le analisi di la Boétie rispetto al tiranno e all’asservimento volontario. Infine, osserveremo l’importanza e la responsabilità del linguaggio e della comunicazione a tutto tondo come arma perpetuante di pensieri e ideologie, tra cui quelle discriminatorie.

Nel secondo capitolo sposteremo l’attenzione sulle influenze sociali e sui membri in quanto pubblico e attori di rappresentazioni quotidiane. Partiremo dall’osservazione dell’identità sociale come parte dell’essere, ovvero dalle mentalità, atteggiamenti, tradizioni, che vengono sviluppati nel tempo e posti come porti sicuri e stabili da dover difendere e assecondare, arrivando fino all’attacco e alla separazione di chi non ne fa parte o li minaccia. Passando poi, a partire dagli studi di Goffman, a casi in cui tale identità viene degradata e frammentata, dando origine a svariati tipi di stigma sociali, dai difetti fisici all’appartenenza ad un determinato gruppo etnico, con annesse discriminazioni. Dopodiché passeremo al ruolo dell’educazione, alla formazione di un “insegnante invisibile” che influenza costantemente ogni individuo a partire dalla mentalità vigente all’interno della società, arrivando a saldare e perpetuare, con grande vigore, anche quelle che sono ideologie o prese di posizioni, spesso inconsapevoli, discriminatorie. Arrivati a questo punto apriremo una breve parentesi sull’esperienza gustativa come esempio di influenza socio-culturale per poi riprendere l’analisi a partire dal concetto di diversità come strumento gerarchizzante, cercando di creare una visione alternativa di tale parola così da esaltare l’unicità piuttosto che temerla e discriminarla. Concluso il quadro teorico in merito alle influenze dettate dall’identità, educazione e diversità, passeremo alle rappresentazioni sociali, ovvero le messe in scena quotidiane che ogni membro, o come attore o come pubblico, vive nella propria routine. Analizzeremo gli aspetti presenti in esse e alcuni dei meccanismi tipici, come quello del referente assente analizzato da Carol Adams, utili per la perpetuazione di aspetti discriminanti. Infine, esamineremo il rapporto tra dominatori e dominati in uno studio attorno al concetto di dominio simbolico presente nei rapporti quotidiani di ogni individuo.

Nel terzo e ultimo capitolo passeremo dalla teoria alla pratica, pensando a cosa ognuno di noi può fare nella propria routine per abbattere e superare tali dualismi, pensieri, mentalità e ideologie discriminanti, ribaltando quegli stessi meccanismi che li saldano costantemente. Proveremo a rinunciare alla narrazione classica per abbracciarne una nuova, così da sfruttare le tensioni emotive come carburante per adottare differenti stili di vita e, da lì, creare nuove abitudini. Vedremo come ogni soggetto sia fondamentale in questa lotta contro le discriminazioni anche senza dover direttamente rivoluzionare la propria vita, creando, ad esempio, ambienti più propensi per gli altri, riflettendo sull’uso del linguaggio e sulle responsabilità attorno alle parole che scegliamo di usare o ai media che decidiamo di sviluppare o seguire. Sottolineando l’importanza dell’intreccio tra conoscenza ed emotività per un cambiamento saldo ed efficace. Infine, passeremo a realtà più concentrate nel presente, ovvero le organizzazioni a sfondo etico. Studieremo come loro si attivano in questa lotta, focalizzandoci particolarmente su due tipi di propaganda da loro eseguite: quella della comunicazione – insegnamenti, comizi e sensibilizzazioni – e quella dei fatti – proteste e manifestazioni – riflettendo, in merito a quest’ultima forma, sulla legittimità di sfociare in azioni illegali. Tutto questo sarà costellato da interventi, risposte e testimonianze di svariati attivisti, volontari e combattenti che ho intervistato per questa ricerca, così da mettere in luce quelle che sono realtà contemporanee di chi lotta tutti i giorni, in prima linea, poiché per quanto i punti di vista possono essere molteplici e i modi di agire differenti, la verità sul fondo è solo una; il discriminato resta tale fino a che non prendiamo coscienza e cambiamo, al di là di tutti i possibili relativismi.

CAPITOLO 2 e 3

Capitolo 2: L’inizio del viaggio

«Ehi! Svegliati!»

«Sono sveglio» risposi con voce rauca, ancora assonnata.
«Siamo arrivati, come ti senti?»
«Sto bene, Markus, grazie. Ma piantala di svegliarmi in questo modo» borbottai, stropicciandomi gli occhi. Stavo cercando di riordinare le idee.
«Preparati amico, ci stanno aspettando… e non voglio fare tardi! Non mi sembrava una persona tanto cordiale, quella che è venuta a chiamarci» disse, con tono preoccupato.
«Aspettando per cosa? E di chi stai parlando?» Mentre ponevo quelle domande mi guardai intorno distrattamente: c’erano solo alcuni abiti, molto semplici, posti su una sedia accanto al mio letto.
«Ti sarà tutto più chiaro tra poco. Vestiti e andiamo» concluse Markus, spiccio.
Indossai una specie di tuta grigia monocromatica, uguale alla sua, e poi insieme uscimmo dalla stanza, passando da una porta simile a quelle terrestri, ma che si apriva muovendosi verso l’alto. Non appena varcammo la soglia, restammo entrambi sbalorditi. Un enorme corridoio, ampio e alto, si allungava fino a sfociare in una grande piazza circolare, lì dove sorgeva un’imponente fontana centrale, tanto grande da essere chiaramente visibile anche dalla nostra posizione. Il soffitto e le pareti del corridoio erano lisci, decorati con neon bianchi e viola, e incorniciavano le varie porte d’ingresso delle stanze che si affacciavano sul passaggio. Al centro del pavimento, come a volerlo dividere in due, si estendevano alcuni spazi verdi, adornati con piccole piante e fiori colorati. Il continuo via vai di

creature e persone – delle più disparate fattezze e dimensioni, ma comunque molto simili a noi umani – dava la sensazione di camminare in una grande città anziché su un’astronave nello spazio. Attraversammo in silenzio il corridoio e giungemmo in piazza. Lì, i nostri occhi si spalancarono ulteriormente: saettavano a destra e a sinistra per guardare, stupefatti, i numerosi edifici, simili a negozi, disposti lungo tutta la circonferenza, dove i venditori esponevano vari oggetti e merci. Tutto attorno alla fontana, invece, gli abitanti della nave si radunavano per parlare, rilassarsi e addestrarsi al combattimento. Meravigliato, mi volsi verso Mark ed esclamai: «Ma dove siamo finiti? In un centro cittadino?».
Anche Markus era stupito. Forse non se n’era accorto, ma aveva la bocca e gli occhi sgranati in un modo decisamente buffo. Guardandosi intorno, rispose: «Non ne ho la minima idea, amico!». Poi, cercando di spingere lo sguardo al di là della fontana, aggiunse: «Dovrebbero essere oltre la piazza. Meglio proseguire e non farli aspettare».
Sembrava agitato, adesso, e dello sguardo buffo non c’era più traccia.
Ci incamminammo in silenzio, incuriositi da tutto ciò che accade- va attorno a noi, quando all’improvviso fummo raggiunti da una creatura che assomigliava all’infermiera che ci aveva accudito. I tratti somatici erano simili, ma indossava abiti diversi: invece del camice bianco, aveva un lungo e ampio mantello che la avvolgeva completa- mente, nascondendole braccia e gambe. Non ci rivolse la parola, ma ci fece cenno di seguirla. Dopo un veloce scambio di sguardi, Mark e io le andammo dietro fino a una sala situata poco più in là della piazza. Era molto piccola e all’interno c’erano solo quattro sedie, due delle quali già occupate. Con una rapida occhiata, notai che si trattava de- gli altri due esseri umani partiti per il viaggio: un uomo e una donna, entrambi con tratti orientali, in apparenza più anziani rispetto a me e a Markus. Avvicinandomi li salutai cordialmente, senza ottenere ri- sposta. In compenso, si girarono per osservarmi, lo sguardo carico di presunzione, e poi mi squadrarono dall’alto in basso, con sufficienza.
Simpatici, pensai.
Markus, che aveva assistito alla scena, mi affiancò ed esclamò, ironico: «Fa piacere incontrare gente cordiale e amichevole. In situa- zioni come queste è sempre importante darsi man forte a vicenda!».

«Non siamo qui per stringere amicizie» rispose la donna, infastidita da quelle parole. «Sedetevi e aspettate in silenzio.»
Fece appena in tempo a finire la frase e noi ad accomodarci che, dalla porta, entrò qualcuno a passo svelto. Una creatura simile all’infermiera, ma con la fronte più pronunciata. La forma del cranio ricordava molto il cappello di un cowboy, dalla cui sommità spuntavano alcune antenne nere. La bassa statura e il corpo esile erano in netto contrasto con la grandezza della testa, sproporzionata rispetto a tutto il resto. La creatura si affrettò a coprirsi con un ampio mantello marrone e, mentre si posizionava di fronte a noi quattro, iniziò a parlare: «Non voglio dilungarmi troppo. Siete sta- ti scelti per volontà di pochi e contro la volontà di molti! Sappia- te che ero tra i molti. Il vostro popolo continua a essere indegno, non merita l’ingresso nel Consiglio. Ciò non stupisce nessuno ma, nonostante questo, siete qui! A scapito del fatto che l’individuo può superare la comunità. Per quanto mi riguarda è una sciocchezza, ma non è il momento di esporre pareri personali». Camminava avanti e indietro, a pochi passi da noi. Nonostante fossimo seduti le nostre altezze erano quasi alla pari. «Come sapete vi abbiamo convocati per partecipare alla guerra contro il Portatore, ovvero colui che ha in sé il potere di creare vita. I motivi che lo spingono ad attaccare gli altri pianeti sono attualmente ancora ignoti, com’è ignoto il suo obiettivo… Perlomeno a noi vertici bassi… Conosciute sono invece la sua volontà di proseguire questa guerra e la sua crudeltà nell’agire. Il vostro compito sarà quello di unirvi alle fila dell’esercito e combattere le armate nemiche. Per questo motivo, nei prossimi giorni inizierete un rapido e intenso addestramento e verrete assegnati a uno dei gruppi che formano la nostra forza militare. Se avete delle domande potrete porle ai vostri addestratori. Nelle stanze che vi sa- ranno destinate troverete tutte le informazioni che vi occorrono. E con questo è tutto. Non ho altro tempo da perdere, con voi.» Finito il breve discorso se ne andò. Poco dopo, gli altri due Umani fecero lo stesso, nel silenzio più totale.
Rimasti soli, Markus iniziò a picchiettare nervosamente il piede
sul pavimento.
«Stai tranquillo, Mark» dissi, sforzandomi di sorridere e di nascondere l’agitazione.

«Tranquillo? Vogliono buttarci in mezzo a una guerra aliena, come faccio a stare tranquillo? Non sono un soldato, ma un conta- bile! Avevano parlato di una guerra, d’accordo, però nessuno ha mai detto che dovevamo parteciparvi!»
«Hai ragione, ma ormai siamo qui, non possiamo tornare indietro… Possiamo, anzi, dobbiamo, combattere per andare avanti» replicai, cercando di dargli coraggio.
«Il problema è che questa volta bisogna combattere letteralmente e, non so tu, ma io non ho mai fatto a cazzotti contro degli alieni… non ho mai fatto a cazzotti, punto! Figurati poi contro alieni maghi… che creano la vita» disse, agitato, alzando ulteriormente la voce. L’ansia di Mark contagiò anche me e il silenzio avvolse rapidamente la stanza. Mi concentrai sulle parole che aveva pronunciato quella piccola creatura, mentre il tremolare delle gambe di Mark scandiva il tempo, come un metronomo. Dopo qualche istante di riflessione, ripresi parola: «Creare la vita… allora non è stato un problema del traduttore, ha veramente detto così. Ma cosa significa, secondo te?».
«Ho letto qualcosa dal terminale in camera, a proposito del Portatore. Non pensavo fosse un essere vivente, sembrava più una leggenda o un mito» rispose Mark, con voce tremante. «Le informa- zioni erano molto poche, ma pare che costui possa generare la vita, creando e modellando energia e materia… dal nulla.»
«Come, dal nulla?» esclamai, sbalordito. «E la legge della conservazione della massa, “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si tra- sforma”, non vale più?»
«L’unico che conosco che riesce a creare vita in questo modo lo ha fatto in sette giorni, e uno lo ha preso di riposo! Ma, sai, uno così non lo farei arrabbiare!»
«Stai dicendo che siamo in guerra contro Dio?» chiesi, ridacchiando nervosamente.
«Non lo sto dicendo io…» Lo sguardo di Markus, adesso, era fisso nel vuoto. «Comunque, forse è meglio non pensarci troppo.»
«Già. Speriamo che siano solo nostre supposizioni.»

Ritornammo in piazza, in silenzio. Guardandomi attorno avevo come la sensazione di trovarmi in un film di fantascienza, visto che eravamo circondati da strane creature che parlavano, scambiavano

merci e si allenavano. Molte erano simili a quelle che avevamo già incontrato: esili, con un cranio pronunciato e, sul capo, antenne di diversi colori e lunghezze. Tra queste, ce n’erano alcune che face- vano fluttuare oggetti attorno a loro, quasi per magia. Altre, invece, avevano tratti più simili ai terrestri: erano tutte donne, molto alte, muscolose e, spesso, dotate di grosse armi da guerra, simili a spade e a mazze, che tenevano agganciate dietro la schiena. Mi ricordavano molto le Amazzoni delle antiche leggende: donne guerriere formidabili, figlie di Ares, il dio della guerra, e della ninfa Armonia, secondo la mitologia greca. Per un attimo lo stupore e la meraviglia presero il sopravvento sull’agitazione e la paura. Che situazione incredibile, pensai, ma quello stato d’animo durò poco: alcune domande si fece- ro largo nella mia testa, cancellando tutto il resto, nonostante i miei tentativi di bloccarne l’avanzata.
«C’è una cosa che proprio non riesco a capire» dissi, rompendo il
silenzio e voltandomi verso Mark. «A cosa serviamo noi? Come possiamo aiutare? Guardati intorno… Quelle donne hanno dieci volte la nostra prestanza fisica e c’è gente che fa fluttuare oggetti… manco fossimo in un film di supereroi! Che genere di supporto possiamo offrire, noi?»
«Pensavo proprio la stessa cosa. La ragazza più bassa che ho vi- sto sarà stata di due metri e mezzo e impugnava un’arma grossa il doppio di me… e guarda quel piccoletto laggiù» aggiunse, indicando una figura vicino alla fontana. «Muove l’acqua senza toccarla! Dove siamo finiti, in una specie di gioco fantasy con maghi e cavalieri?»
«Non lo so, non riesco proprio a capire…»
«Inoltre non mi sembra di essere molto ben voluto da questi es- seri!» continuò Markus. «O non ci guardano o ci guardano male… e non so cosa sia peggio.»
«Be’, il grande oratore di prima ci ha definito un popolo indegno, quindi non mi aspetto molto da loro. Oltre al fatto che è stato chiaro, siamo qui per volontà di pochi… Spero di trovarli, questi pochi.»
Arrivati davanti alla nostra stanza, fummo accolti da due picco- le creature, entrambe avvolte da grossi mantelli color cenere, che ci assegnarono delle camere separate. Ci salutammo rapidamente, dandoci appuntamento alla mattina successiva. Entrambi avevamo bisogno di stare un po’ da soli, riordinare le idee e riflettere su ciò

che stava accadendo. La mia stanza era la numero quattro e i grossi neon che la incorniciavano passavano dal verde all’arancio. All’in- terno non c’era molto: un letto, alcuni mobiletti, una sedia e, in un ambiente separato, il bagno. Tutto era di un bianco molto brillante. L’unica cosa che risaltava era la sedia, macchiata di mille colori.
«Che pugno in un occhio» commentai, osservandola.
Su un comodino vidi le solite pillole e quella che sembrava acqua.
Wow, un hotel a cinque stelle, proprio, pensai, ironicamente. E guarda che varietà di cibo! Meglio di una carbonara!
Notai che sopra il letto era poggiato un foglio con delle indicazioni sul luogo e l’orario dell’addestramento:

Settore A, stanza diciotto. Sveglia impostata alle ore sei.

«Molto sintetici… Se non altro, la scansione del tempo è la stessa… almeno per quanto riguarda le ore. Anche se è uno spreco usare tutta questa carta per un messaggio così breve» dissi tra me e me, divertito, cercando ogni occasione per sdrammatizzare.
A destra del letto, sopra al mobiletto, un oggetto simile alle nostre sveglie segnava le diciotto e trentadue. «È ancora presto. Meglio sfruttare queste ore libere per trovare il settore A» riflettei ad alta voce, pensando all’appuntamento del giorno dopo.
Uscito dalla stanza tornai in piazza. Subito il mio interesse fu catturato da alcune donne che si allenavano. Erano davvero possenti, alte oltre i due metri, e combattevano a mani nude con una tecnica eccezionale, senza trattenere i colpi. Lunghi capelli, lisci e castani nella prima e mossi e biondi nell’altra, incorniciavano i loro volti, seri e con- centrati. Il mio animo da praticante di arti marziali si esaltò immediatamente, come sempre quando vedevo esercitare queste arti. Continuai a osservare le due avversarie con attenzione: sferravano colpi con estrema velocità e potenza, ma equamente riuscivano a contrastarsi, assorbendoli o deviandoli. Non reggerei un minuto contro di loro, pensai, sbalordito. Cercai di studiarne la tecnica e la strategia. L’intensità e la rapidità con cui colpivano erano sovrumane, probabilmente a causa della muscolatura sviluppata, ma nonostante ciò le donne erano molto agili e scattanti, fluide nei movimenti. Restai esterrefatto dalla somiglianza tra il loro sistema e quello che praticavo sulla Terra.

È proprio vero ciò che ripeteva il mio Maestro. L’efficacia sta nel principio… e quando si seguirà il principio corretto, tutti gli stili si assomiglieranno, pensai, senza staccare gli occhi di dosso alle due combattenti. Si concentravano in prevalenza sui colpi portati con le braccia, sfruttando i calci solo come squilibri o tentativi di rottura del ginocchio. La schiena e il tronco restavano sempre allineati, senza mai perdere l’equilibrio e la stabilità, perfino nei momenti di lotta. Le stavo ancora fissando, estasiato, quando una voce pacata richiamò la mia attenzione.
«Umano» disse una terza donna, dietro di me, mentre mi afferrava la spalla con una mano. Voltandomi mi sentii oppresso dalla stazza di quella guerriera. «Che cosa vuoi?» continuò lei, mollando la pre- sa, e restò fissa a osservarmi.
Nonostante avesse parlato con calma, intuii immediatamente di non essere gradito. Le arrivavo al petto e le sue braccia erano larghe quanto le mie gambe.
«Cercavo il settore A e mi sono fermato a guardarvi» risposi, intimidito, volgendo lo sguardo ovunque tranne che su di lei.
«La zona settoriale è oltre le sale delle riunioni» m’informò, in- dicando con il pollice dietro di sé. Nel farlo, fletté il braccio, met- tendo in risalto il bicipite. Nel breve istante in cui la guardai notai che l’occhio sinistro, parzialmente nascosto dalla frangia scura, era arancione acceso, al contrario del destro, che era nero.
«Grazie» le dissi, distogliendo lo sguardo dal suo, e subito mi allontanai, con passo svelto. Superato il corridoio, raggiunsi la zona settoriale. Un grande giardino quadrato era posto al centro mentre, sul perimetro, si snodava un’ampia strada dalla quale era possibile accedere ai vari settori. «Sembra proprio di essere in una città» dissi tra me e me mentre alzavo lo sguardo verso il soffitto, dov’era stato ricreato un cielo artificiale. «Davvero incredibile!» Anche lì c’era un via vai di persone che si muovevano rapidamente in tutte le direzioni; alcune entravano nelle varie porte, altre parlottavano tra loro.
Iniziai a camminare lungo il perimetro e subito trovai il settore A, il primo sulla sinistra.
Provai a sbirciare attraverso il vetro del portone, incuriosito da ciò che poteva esserci all’interno, con la speranza di trovare qual- che indizio su quel che mi aspettava. Provai da diverse angolazioni,

ma non si vedeva nulla. La luce era spenta e la porta chiusa: non mi restava altro che aspettare l’indomani.
Sconfortato, sedetti sul muretto che delimitava il giardino e iniziai a riflettere.
Quel posto mi ricordava il parco della mia vecchia università. Chi l’avrebbe mai detto? Allora quella notte non è stata solo una nostra allucinazione, pensai, ricordando un frammento confuso del mio passato. Annunciava veramente questo evento. Peccato sia toccato solo a me, amico mio. Se fossi al mio fianco sarebbe tutto più semplice, adesso… Coraggio, Leon, non è tempo di lasciarsi andare al passa- to, mi dissi, tristemente.
Iniziai a massaggiarmi il mento, stuzzicandomi il pizzetto, e nel mentre cercavo di riordinare le idee.
Un gruppo di alieni mi aveva assoldato per una guerra, ero fini- to con altri tre esseri umani su una nave piena di strane forme di vita e mi avevano persino sottoposto a una serie di operazioni… In effetti, e me ne resi conto solo in quel momento, ci vedevo bene: probabilmente mi avevano curato la miopia e nel caos degli eventi non me n’ero neppure reso conto. E poi mi aspettava il famoso addestramento… e non sapevo neppure di cosa si trattasse. Mi guardai intorno, sperando di cogliere qualche elemento utile, e notai che c’erano principalmente due specie aliene, nonostante, al momento della loro apparizione sulla Terra, si fossero annunciati come un Consiglio di quattro: i piccoletti con il testone e i loro strani poteri telecinetici, e le Amazzoni giganti.
Entrambe le tipologie non sono molto diverse da noi esseri umani, pensai. Due braccia, due gambe, una testa… Be’, meglio così, un trauma in meno! Quello che proprio non riesco a capire è cosa vogliono da noi. Come possiamo essere utili? Non ci hanno dato molti indizi. Sono solo stati chiari sul fatto che molti non ci volevano. Eppure siamo qui…
Immerso in quelle riflessioni, non notai l’arrivo di due telecinetici alle mie spalle finché non iniziarono a parlare tra loro. Incuriosito, tesi l’orecchio per sentire cosa stessero dicendo.
«Sai, ho sentito che i nostri scienziati hanno scoperto e individua- to il centro dell’universo» confidò il primo.
«Bene» rispose il compagno.
«Sembri dispiaciuto, o forse non ti interessa la notizia?»

«No… è che immagino che molti saranno tristi di scoprire che non sono loro, il centro di tutto!»
Vedo che il pessimo umorismo è presente nell’intero universo, pensai, alzando gli occhi al cielo, mentre i due piccoletti ridevano.
«A parte gli scherzi, oggi mi è stato riferito che le Cheimatos sono
state sconfitte su Bruno» disse il secondo dopo un po’, cambiando tono.
«Come lo sai?» domandò l’altro, preoccupato.
«Me l’ha detto il nostro superiore. Probabilmente verremo man- dati su quel pianeta come supporto. Dopotutto è un punto strategico, non può essere lasciato al nemico.»
«Deve essere dura la guerra lassù, le Cheimatos non si sconfiggo- no facilmente. Da chi sono state attaccate?»
«Dai Creati del Portatore. Ma non c’è traccia di Comandanti… sa- ranno guidati solo da Capitani.» Una breve pausa, poi riprese a par- lare. «Secondo me le Cheimatos sono abili guerriere, ma combattono ricorrendo a spade, lance e altre tecnologie belliche arcaiche. Fanno troppo affidamento sul corpo, quando è la mente l’arma più potente. Non mi stupisce che abbiano perso.»
«Bada che non ti sentano!» esclamò il primo. «Al contrario di noi Psykines, la loro specie ha preferito sviluppare il corpo, ma nono- stante le differenze bisogna collaborare. Insieme si vince, non da soli. Ricordati le parole del nostro Consigliere.»
«Ad ogni modo, è meglio prepararsi alla guerra. Suppongo ci mandino su Bruno per guadagnare tempo e riuscire a fuggire…» L’alieno sospirò, poi probabilmente consultò l’ora, perché aggiunse: «Ora devo andare, mi attendono altrove. A domani». Dopo aver salutato se ne andò.
Quella breve conversazione mi aveva fatto preoccupare, sollevando in me nuove domande. Quindi le due specie presenti su questa nave si chiamano Psykines e Cheimatos… Vedo che nulla cambia, però, e che anche qui ci sono problemi di collaborazione. La diversità porta sempre sfiducia negli altri o troppa fiducia in se stessi… Inoltre, pare che i nostri nemici non siano solo il Portatore e le creature da lui generate, ma anche…
«Perfino nella nostra specie, nonostante venga definita degna ed evoluta, ci sono problemi di specismo, pregiudizi e arrogante superiorità…» Di colpo, la voce dello Psykines rimasto in giardino inter- ruppe la mia riflessione. «Non badarci troppo e preparati al meglio

per la guerra e il futuro, Umano. Per fortuna pochi di noi sono così arroganti e specisti e se ti comporterai degnamente riuscirai a ottenerne la fiducia.» L’alieno aveva parlato con tono cordiale. Si alzò e, senza voltarsi, si allontanò, esclamando: «La cura è nello studio!».
Rimasi stupito. Si era accorto di me e, per la prima volta, non ero stato trattato con disprezzo, superiorità o indifferenza. Sarà uno dei pochi? mi chiesi, mentre mi alzavo per dirigermi verso gli alloggi.
Percorsi tutta la strada in silenzio, immerso nei miei pensieri e, arrivato nel corridoio su cui si affacciavano le stanze, notai la donna Umana incontrata ore prima durante la riunione.
«Pronta per l’allenamento di domani?» le domandai, con gentilezza. Lei si voltò di scatto e con arroganza rispose: «Se non fossi pronta,
non sarei qui».
Nonostante quel suo atteggiamento mi facesse irritare, cercai di restare sereno. «Comunque, non ci siamo ancora presentati. Mi chiamo Leon, piacere» dissi, porgendole la mano.
«Un nome che probabilmente non ricorderò» replicò lei, e si chiuse la porta della stanza alle spalle.
«Questa l’hanno scelta per la simpatia» sussurrai, infastidito.
Entrato in camera, mi sdraiai sul letto. Il soffitto raffigurava un cielo scuro punteggiato di astri brillanti. Quella visione mi riportò indietro nel tempo, alle serate estive con gli amici, alle nottate in spiaggia a guardare le stelle, quando speravamo di vederne qual- cuna cadere, sereni e senza preoccupazioni. «In questi momenti il passato sembra sempre più dolce…» sospirai, mentre, senza esitare, prendevo le pillole dal comodino e le ingerivo. Con un po’ di malinconia nel cuore mi abbandonai alle braccia di Morfeo.
Chissà cosa mi aspetta domani… pensai, prima di addormentarmi.

Fui svegliato da un’intensa luce che illuminava tutta la stanza. A fatica aprii gli occhi e, con stupore, notai che il soffitto era cambia- to, non raffigurava più un cielo notturno bensì un’alba, di un intenso color arancione. Voltandomi guardai l’ora: segnava le cinque e cinquantasette del mattino. Odiavo svegliarmi pochi minuti prima del suono della sveglia, non riuscivo proprio a sopportarlo. Infastidito, premetti la faccia contro il cuscino e poi passai i minuti successivi a letto, a fissare il soffitto e ad aspettare il suono della sveglia. Restare

sveglio in quei tre minuti fu un’ardua sfida: avevo molto sonno e non ero mai stato un tipo mattiniero. All’improvviso, un fischio insop- portabile si sollevò dall’orologio elettronico, bucandomi i timpani.
«Ok! È ora di alzarsi. Coraggio, Leon!» dissi, colpendo l’aggeggio per interrompere quel suono fastidioso. Con fatica mi buttai giù dal letto e, dopo essermi preparato alla veloce, uscii dalla stanza.
Nonostante l’orario, c’era già parecchio movimento nel corridoio. Tra la folla, in lontananza, vidi Markus avviarsi verso la piazza centrale. Accelerai il passo e lo raggiunsi. «Ehi, Mark!»
Con la faccia assonnata e gli occhi ancora socchiusi, Markus si girò.
«Buongiorno, signore, il progetto impronta non è ancora pronto, signore…» disse con voce rauca.
«Guarda che non sei al lavoro!» risposi, ridendo.
«La forza dell’abitudine. Prima della colazione non capisco niente» borbottò. «Secondo te c’è un bar da qualche parte?».
«Non credo, anche se berrei volentieri un buon caffè. Comunque, dove sei diretto? Settore A?»
«Settore D, amico. Ma l’appuntamento è davanti alla fontana.»
Percorremmo la strada insieme e, raggiunta la piazza, ci salutammo. Stranamente ero pieno di energia, l’emozione era un buon carburante, perfino in momenti come quello. A passo svelto raggiunsi il mio settore ed entrai. Un breve corridoio dava accesso a tre stanze. Mi avvicinai alla porta di sinistra e sbirciai da una vetrata: sembrava una sorta di spogliatoio, con vari armadietti posti su tutto il perimetro e diverse panche al centro. Provai a entrare, ma la porta era chiusa. Mi diressi, allora, alla stanza centrale. Avvicinandomi la porta si aprì automaticamente, scorrendo; dentro, una figura in piedi attendeva. Vidi molti attrezzi, probabilmente impiegati per l’allenamento, alcuni simili a sacchi per gli sport da combattimento, altri a pesi di varie dimensioni, i più grandi grossi più del mio torace. La stanza era vasta e gli arredi erano disposti in modo da lasciare un ampio spazio vuoto al centro. «Bene, sei arrivato presto» mi sa- lutò la figura, facendomi cenno con la mano di avvicinarmi. Era una Cheimatos: lunghi capelli castani le nascondevano l’occhio sinistro e buona parte del volto, arrivando fino a metà schiena. Un abito nero e grigio, molto attillato, le copriva busto e gambe, lasciando scoperti parte del collo e le braccia. Quando fui più vicino notai che

su queste ultime la donna aveva numerose cicatrici, probabilmente causate da armi affilate o da taglio, anche se alcune ricordavano più i segni lasciati dagli artigli di grossi animali che colpi d’arma bianca. Con l’occhio fisso su di me, la donna iniziò a parlare.
«Il nome che porto è Kirene. So che sul tuo pianeta praticavi uno stile di combattimento corpo a corpo, sia disarmato che con l’utilizzo di armi. Per questo motivo sei stato assegnato a questo settore… e a me.» Il tono, pacato e deciso, sembrava quasi indifferente.
Da vicino la differenza tra noi due era ancora più palese: Kirene era alta almeno settanta centimetri più di me e aveva decisamente più muscoli. Già mi sentivo piccolo sul mio pianeta… ma davanti a queste Amazzoni sparisco, pensai.
«Altezza nella norma, corporatura esile… e sei circa a un terzo rispetto alla vita media della tua specie» continuò lei, leggendo un foglietto. Mi squadrò dall’alto in basso per un paio di volte, poi ri- prese: «Siete piccoli e fragili per il combattimento corpo a corpo, voi Umani. Dovrai compensare con molta tecnica e astuzia, o avrai vita breve. Spero tu sia pronto, l’allenamento sarà duro. Sei una responsabilità mia, ora. Non credere di ricevere un trattamento speciale solo perché sei qui per volontà di un Consigliere». Quindi mi porse delle pillole. «Ora ingerisci queste, aiuteranno il tuo corpo a recuperare le energie. Sono state ideate apposta per la tua specie, un trattamento speciale… pur essendo tu un semplice Umano.»
Sperai fosse vero, dato che prendere tutti quegli integratori non mi piaceva per niente. Per di più erano sempre insapori. Ingerii le pillole svogliatamente, poi dissi, emozionato e agitato allo stesso tempo: «Sono pronto, come procediamo?».
Feci appena in tempo a finire la frase che Kirene, fulminea, mi afferrò con una mano dietro al collo, trascinandomi verso il basso, e simultaneamente mi colpì in volto con una violenta ginocchiata. Sentii tutta la mia faccia impattare contro la sua gamba e percepii il rumore di alcune ossa che si sbriciolavano. Caddi a terra coprendo- mi naso e bocca con la mano. In pochi istanti, le mie dita si riempirono di sangue; a ogni respiro sentivo una forte fitta e un nauseante sapore metallico che si espandeva in bocca e in gola. Tastando con la mano mi resi conto di avere il naso rotto e a quel punto la rabbia prese il posto del dolore. Mentre mi rialzavo, sentii Kirene dire:

«Non eri pronto?».
Per me fu come una provocazione, e la collera che provavo aumentò. La vista mi divenne tubolare: solo il mio bersaglio, la Cheimatos, era lucido, tutto il resto appariva sfocato. In un attimo, passai al contrattacco sferrando vari pugni contro di lei. Mantenendosi inespressiva, con un rapido movimento Kirene si spostò di lato e mandò a vuoto i miei colpi, poi mi sferrò un calcio circolare alto. Ri- uscii a notarlo poco prima dell’urto. Istintivamente alzai il braccio, coprendomi il lato del volto con il gomito ma, nonostante il blocco, l’impatto fu così violento da scaraventarmi contro il muro, a oltre un metro di distanza.
Kirene si avvicinò e mi guardò. Volevo reagire ma non riuscivo ad alzarmi. Ricambiai lo sguardo, sentendo il sangue gocciolare sul mio volto, e, con voce affannata, accennai un sorrisetto e le dissi:
«In confronto ai colpi del mio Maestro, le tue sono carezze». Lei restò in silenzio a osservarmi, del tutto indifferente alla provocazione. Sapevo che si era trattenuta ma era comunque riuscita a mettermi al tappeto con estrema facilità e questo mi faceva infuriare ancora di più. Iniziai a respirare a fatica, mentre il pavimento sotto di me continuava a tingersi di rosso. In poco tempo la testa prese a girarmi e la vista si fece sfocata.
L’ultima cosa che vidi fu Kirene che si abbassava su me. Poi svenni.

Capitolo 3: L’addestramento Continua

«Ehi! Svegliati!»

Mi svegliai immerso in una vasca da bagno, in una piccola stanza bianca, dentro una specie di gel bluastro simile a quello che mi avvolgeva la testa giorni prima. Rimasi disorientato per un attimo, ma poi i ricordi riaffiorarono. Tastandomi il volto mi accorsi che non c’erano ferite: il naso non era rotto e riuscivo a respirare normalmente. Mentre mi accingevo ad alzarmi, fui raggiunto da una Psykines in camice bianco. «Puoi tornare nella tua stanza, i tuoi effetti personali sono nell’armadietto dietro di te» disse.
«Grazie, ma cos’è successo?»
«Ti trovi in infermeria, dato che hai subìto danni durante l’allenamento: naso rotto, quattro costole incrinate, gomito fratturato e qualche piccola contusione» m’informò lei. Controllò un piccolo tablet vicino alla mia vasca e poi aggiunse: «Ma il tuo corpo è completamente operativo, adesso». A quel punto, se ne andò.
Nonostante le ferite fossero guarite, il dolore restava. Con fatica mi alzai, recuperai gli abiti e, dopo essermi cambiato, uscii. Sofferente, sia fisicamente che mentalmente, raggiunsi la mia stanza e al suo interno, con grande sorpresa, trovai qualcosa da mangiare e degli abiti puliti, simili a quelli indossati dalla mia insegnante.
Finalmente del cibo solido, sembra carne… è anche ora di pranzo! pensai, affamato. Mi ingozzai con voracità, poi mi sdraiai sul letto, dove iniziai a ripensare al combattimento contro Kirene.
Mi aveva chiuso in un semplice clinch, aveva usato un passo laterale… Colpi semplici, diretti ed efficaci… e si era sicuramente trattenuta.
Iniziai a demoralizzarmi: come avrei fatto a rendermi utile se venivo sconfitto così facilmente?
Pian piano i pensieri si affievolirono e divennero confusi. Gli oc- chi iniziarono a chiudersi e i muscoli a rilassarsi…

Fui svegliato da una forte fitta al gomito.
«Chissà come sta Mark» sussurrai, sbadigliando. Ero tutto indolenzito. Mi buttai giù dal letto, massaggiandomi il gomito dolorante con l’altro braccio, poi, con la scusa di cercare il mio amico, uscii a fare una passeggiata e mi diressi verso il centro. Raggiunta la piazza, vidi Kirene combattere contro due Cheimatos. Mi fermai a osservarle, ma la lotta non durò molto. In pochi secondi la mia insegnante sferrò un violento pugno contro la più vicina, seguito da un calcio ad altezza del ginocchio. Dopodiché la afferrò per i capelli, mentre con il braccio libero colpiva la seconda guerriera. Con un forte stratto- ne sbatté a terra la prima avversaria, quindi centrò l’altra sulla gola, lasciandola senza fiato. Entrambe furono messe al tappeto in pochi istanti, sotto ai miei occhi increduli. Kirene, accortasi di me, aiutò a rialzarsi le due Cheimatos, le salutò con rispetto e poi si avvicinò, fissandomi con sguardo vitreo. «Umano, domattina faremo allena- mento armato.» Così dicendo, tirò fuori un piccolo tablet e lo consultò. «Intorno alle diciannove, sii puntuale.»
«Maestro» replicai, abituato a chiamare così il mio insegnante
sulla Terra. «Intendi le sette di mattina o di sera?» Non ero sicuro di aver capito bene: non aveva detto che l’allenamento era al mattino?
«Le diciannove. Sul mio pianeta le giornate sono da trentasei ore… non riesco ad abituarmi a questo sistema» rispose lei, per poi allontanarsi e tornare dalle altre donne.
Continuai la ricerca di Mark.
Girai per qualche ora, attraversando più volte la piazza centrale, il parco della zona settoriale e il corridoio degli alloggi, ma senza risultati. Arreso, mi sedetti davanti alla fontana, dove restai parecchio tempo a osservare le varie persone di passaggio e ad ascoltare il rumore dell’acqua. All’improvviso, in lontananza, sentii gridare il mio nome. Il richiamo era quasi impercettibile, ma avevo sempre avuto un buon udito. Girandomi vidi Markus che si avvicinava, sbracciandosi in mezzo alla folla. «Finalmente ti ho trovato, ami-

co!» esclamò, affannato, quando mi ebbe raggiunto. «Ti ho cercato dappertutto. Allora, com’è andata?»
«Ti cercavo anch’io» replicai, contento di vederlo. «Comunque… allenamento corpo a corpo, niente di che…» risposi velocemente, di- stogliendo lo sguardo dal suo.
«Non sembri molto contento. Be’, in ogni caso ho delle nuove in- formazioni» disse, trepidante. «Ho scoperto che le giganti si chiamano Cheimatos e i piccoletti Psykines. Ma la cosa più assurda è che siamo stati convocati per volere di un Consigliere! E i Consiglieri rappresentano la carica massima, sia a livello militare che politico, in questa alleanza… Non è pazzesco?» chiese, emozionato.
«Sì, l’ho sentito dire anch’io… ma sai perché ci ha voluti qui?» ri- sposi, smorzando il suo entusiasmo.
«Purtroppo no. Però mi hanno spiegato com’è suddivisa parte del- la forza militare. Il tuo supervisore te l’ha accennato?»
«No, non so nulla… Noi non… non abbiamo parlato molto, oggi.» Markus mi mise una mano sulla spalla.
«Un’altra accoglienza brutale, eh? Mi dispiace, amico…» Dopo un brevissimo silenzio, schiarendosi la voce, continuò: «Se ti interessa, te lo spiego brevemente». Annuii, e lui si sedette a fianco a me e iniziò a raccontare. «Da quel che ho capito, la forza militare è formata da tre gruppi. Pare che noi saremo assegnati al terzo, la Legione, che è il grosso, massiccio, corpo dell’esercito, a sua volta suddiviso in tre sottogruppi: assaltatori, difensori e supporti. Il primo è una linea d’assalto, in cui si pratica combattimento corpo a corpo e a di- stanza, con lo scopo di demolire ed eliminare la forza avversaria. Il secondo, invece, si occupa di erigere una linea difensiva. Protezione e difesa di territori, linee d’assalto, confini e via dicendo sono il suo pane quotidiano. Infine, l’ultimo, come dice il nome stesso, è incaricato di supportare tutte le unità. Truppe rapide che sfruttano veicoli e altri mezzi simili per muoversi velocemente sul campo. Tra i loro compiti ci sono il rifornimento munizioni, il primo soccorso, il trasporto e, in casi estremi, azioni offensive e difensive.»
«Hai idea del gruppo al quale verrai assegnato?» gli chiesi.
«Supporto. Mi forniranno un mezzo per il trasporto di truppe e munizioni. Questo è ciò che mi ha detto il mio istruttore… uno Psykines, stranamente cordiale e meno piccolo degli altri. Si fa chiamare

Cerrino, Ceppino… Cecchino, non mi veniva! Tu, invece, di cosa ti occuperai?»
«Non ne ho idea, Mark… Sono stato assegnato a una Cheimatos. Mi sta preparando per il combattimento corpo a corpo. Suppongo che finirò nel primo gruppo.»
Restammo in silenzio per qualche secondo. Alla fine dissi, a bassa voce: «Ora vado, Mark. Perdonami ma sono stanco. Ci vediamo domani».

Mi diressi in camera, pensieroso. Ciò che mi aveva appena spiega- to Markus mi preoccupava. Verrò assegnato agli assaltatori? Dovrò stare in prima linea? mi chiesi, rabbrividendo. Ho fatto davvero la scelta giusta a venire qui? Come un castello di carte che al primo spiffero crolla, quella chiacchierata mi aveva fatto ricordare il pe- ricolo che stavamo correndo. «Coraggio, Leon, non è tempo di ti- tubare» dissi, per incoraggiarmi. Entrato in camera andai subito a letto, senza cenare. Più tempo avevo per riflettere, più aumentava la preoccupazione. Fu difficile prendere sonno, il dolore fisico e l’agitazione mi tormentarono tutta la notte, continuando a svegliarmi.
Arrivata la mattina ingerii le pastiglie che avevo avanzato la sera prima e, siccome mancavano parecchie ore all’inizio dell’allena- mento, girovagai tra la piazza e la zona settoriale.
Nessuno si avvicinò o mi parlò e non c’era traccia degli altri esseri umani. Passai il tempo da solo, cercando di focalizzarmi sul presente e su ciò che dovevo fare, senza scivolare nel passato e nei ricordi: non potevo rimpiangere le mie scelte, dovevo farmi forza e restare concentrato. Il tempo trascorse molto lentamente. Arrivate le diciannove, mi presentai in palestra, desideroso di riscattarmi dalla figuraccia del giorno precedente.
Trovai Kirene ad attendermi, immobile al centro della stanza, che appena entrato mi invitò ad avvicinarmi. Alle sue spalle, su un lungo tavolo, c’era una grande varietà di oggetti. «Dietro di me sono esposte alcune armi» mi disse. «Armi del mio mondo, del tuo e degli Psykines. In quanto tutti Mesotes, le nostre specie hanno sviluppa- to tecnologie, metodi di combattimento e armamenti molto simili. Ovviamente, visto che siete una specie più giovane, le vostre tecnologie sono retrograde rispetto alle nostre… come lo è la vostra

struttura fisiologica.» Parlando, si scostò con la mano i capelli che le coprivano l’occhio sinistro, rivelando un’iride verde smeraldo.
«Comunque, non dilunghiamoci troppo in chiacchiere. Avvicinati e scegli un’arma» disse, pacata.
Osservai meglio il tavolo e notai moltissime armi, di diverse dimensioni e modalità d’impiego. Alcune erano familiari, altre totalmente estranee. Esclusi subito le armi da fuoco e quelle voluminose delle Cheimatos, avvicinandomi alle uniche con le quali avevo svolto un mi- nimo di allenamento: coltelli, spade e delle piccole spranghe, simili a bastoni, che usavo sulla Terra. «Prenderò una di queste…» dissi, titubante. «Le usavo anche sul mio pianeta, in allenamento…» Poi guardai Kirene incuriosito e le chiesi: «Mi scusi, Maestro, cos’è un Mesotes?».
«Non sono la tua insegnante di storia o biologia» rispose lei, prendendo dal tavolo due piccoli oggetti simili a fasce per i polsi. «Comunque, tutti gli esseri viventi razionali dell’universo vengono sud- divisi in tre grossi gruppi o domini generali. I Mesotes sono uno di questi.» Allungò verso di me le fasce. «Oltre alle armi che hai scelto, indossa anche questi bracciali. Sono una tecnologia bellica realizzata dagli Psykines per noi. Poco prima di un violento impatto ricoprono la mano con un tessuto resistente e si rivelano molto utili per evitare di rompersi le dita o di essere disarmati.» A quel punto, impugnò la grossa spada che teneva dietro la schiena. Un’arma molto semplice, affilata da entrambi i lati ed estremamente appuntita, che assomigliava agli spadoni medievali, anche se appariva più lunga e larga rispetto a questi. Probabilmente era formata da diverse leghe metalliche, date le diverse sfumature nere sul grigio della lama.
Kirene mi fissò. «E ora… vediamo cosa sai fare».
Afferrai solo un coltello con la mano destra e ricambiai lo sguardo di lei. Subito fui intimorito dalla sua figura. È un gigante… e impugna una spada più grossa di me. Come faccio a combattere contro una così? Poi ha sempre quello sguardo e quella voce da psicopatica! pensai, mentre lentamente mi mettevo in posizione. Piegai le gambe, pronto a scattare.
«Si percepisce la tua tensione. Se hai paura in allenamento cosa farai sul campo di battaglia?» disse Kirene, tranquilla, con sguardo glaciale. Fissandola negli occhi notai che il sinistro aveva cambiato colore. Non era più verde, ma azzurro, come un cielo privo di nuvole. Cercai di prendere coraggio e, con voce tremante, esclamai: «Sono pronto, iniziamo!».

Kirene balzò su di me, sferrando un violento fendente. Nonostante la spada fosse enorme, la Cheimatos riusciva a impugnarla con una sola mano e con estrema destrezza. Goffamente mi abbassai, evitando il colpo, ma non feci in tempo a contrattaccare che lei mi afferrò i capelli e mi colpì il volto con l’elsa della spada. Caddi a terra, la bocca piena di sangue, e subito mi rialzai.
«Non mi dai tregua!» esclamai, arrabbiato.
«Pensi che il tuo nemico lo farà? Pensi che ti batterai in un duello onorevole sul campo di battaglia? Lì non ci sono regole. Non ci sono limiti. Se non sarai tu a eliminare il tuo avversario, sarà lui a elimi- nare te» disse, mantenendo il suo classico tono.
Mi pulii il sangue con la mano e cercai di reagire. Le armi che avevo scelto precedentemente erano poggiate sul pavimento, poco lontano da me, e nel notarle mi venne un’idea. Così gridai e finsi uno scatto verso Kirene, nella speranza di distrarla, e le lanciai il coltello. Saltai poi verso le armi e afferrai la spada, tuttavia in quel momento la Cheimatos mi raggiunse.
«Ottima strategia. Ma il tuo sguardo mi aveva già rivelato il piano che avevi in mente.»
Mi afferrò il braccio armato, stringendolo forte, e lo bloccò. Sentivo l’ulna e il radio scricchiolare sotto la sua stretta. Kirene puntò lo sguardo su di me. «Fai scorrere i tuoi pensieri. Non congelarli nella mente o diverranno visibili al tuo avversario, nonché un peso per te» disse, stringendo con intensità sempre maggiore il mio arto. «Non dare tregua al tuo nemico. Sii rapido e conclusivo.» Senza pensarci due volte mi colpì il braccio con l’altra mano, spezzandolo all’altezza del gomito, mentre con un calcio mi atterrava. Era stata velocissima: aveva riposto l’arma dietro la schiena ancora prima di afferrarmi l’arto per romper- lo. Una scarica elettrica pervase il mio corpo, il dolore fu lancinante. Gridai, afferrandomi il braccio rotto, cercando di tenerlo fermo. Kirene non mostrò segni di pentimento o di qualsiasi altro stato d’animo. Restò impassibile di fronte a me, a osservarmi, mentre l’occhio sinistro tornava a essere smeraldino. Poi s’incamminò verso l’uscita.
«Ricorda, se rompi la struttura dell’avversario lo renderai inabile.
Non c’è bisogno di uccidere se non è necessario… o rischi di perdere la tua arma più forte. Continueremo il nostro allenamento fra trentasei ore.» Ciò detto uscì, senza voltarsi indietro nemmeno una volta.

Il dolore era così forte che rischiai di perdere i sensi, la vista si oscurava e la testa girava. Con fatica mi rialzai e mi trascinai fuori dalla palestra: nonostante avessi il braccio rotto e la faccia sangui- nante, nessuno si avvicinò per aiutarmi. Mi avviai in infermeria, poggiandomi di tanto in tanto su qualche muretto per riprendere fiato, e una volta sul posto incontrai la stessa infermiera del giorno prima che, dopo avermi somministrato dei medicinali per sopire il dolore, mi avvolse il braccio con una garza gelatinosa.
«Questa medicazione ripristinerà l’arto in poco tempo. Mangia e riposa, al tuo risveglio sarai di nuovo in grado di usare il braccio» mi disse.
Poco prima di addormentarmi, in camera mia, pensai a Kirene. Cosa stava cercando di insegnarmi, in quel modo? Non ero certo lì per farmi pestare… Cosa voleva dimostrarmi? Per un attimo la rabbia scacciò la stanchezza. «Coraggio, Leon, dormi, adesso. Il pensiero positivo cambia la vita… dicono» mi ripetei, prima di prendere sonno.

I giorni successivi passarono molto rapidamente. Uscivo solo per allenarmi, e nel tempo libero rimanevo nella mia stanza a riposare o a ripassare ciò che imparavo. Kirene non cambiò atteggiamento nei miei confronti: restò sempre incisiva e sintetica, sia nelle spiegazioni che nella pratica. Continuava a ripetere l’importanza della fluidità di pensiero, della rapidità nell’agire, del rispetto per i propri compagni e soprattutto per la vita. «Resta libero, non chiuderti in schemi o dogmi. Combattiamo per essere liberi, ma come credi di vincere se sei il primo a negarti la libertà?» ribadiva, ogni volta.
Una sera, come tante altre, sentii qualcuno bussare alla porta del- la mia camera.
«Ehi, amico, sono Mark.» Sorpreso, gli aprii.
«Ciao Mark, come stai? È da un po’ che non ci vediamo!» esclamai, contento di vederlo.
«Ho passato questi giorni tra addestramento e studio. Ho cercato di capire come funziona il sistema militare, di reperire informazioni… cose così. Per il resto, tutto bene.»
«Hai scoperto qualcosa di nuovo?» chiesi, incuriosito.
«Sì, ma adesso non c’è tempo per le spiegazioni. Siamo stati con- vocati d’urgenza nella sala riunioni. Preparati, ti aspetto in piazza.»

Indossai rapidamente la solita tuta grigia e nera e lo raggiunsi.
«Sai di che si tratta?» gli domandai, un po’ agitato.
«No, e neanche i nostri addestratori ne hanno idea. Aumentiamo il passo… questa convocazione mi preoccupa.»
Una volta arrivati nella sala, notai lo stesso Psykines incontrato giorni prima, durante la prima riunione che c’era stata con noi Terrestri. Quando anche gli altri due esseri umani ci ebbero raggiunto, l’alieno iniziò a parlare.
«Vi abbiamo convocati con urgenza per un semplice motivo» esordì. «Siete stati scelti per partecipare a una missione. Io sono uno Stratega del Consiglio Universale e sono stato assegnato al pianeta sul quale verrete spediti. La decisione di mandarvi lì non è mia, voglio che sia chiaro… ma non è il momento di esporre pareri per- sonali. Sarete assegnati alla Legione di Prìmari, che vi attenderà sul pianeta denominato “Bruno”. I vostri addestratori vi aspettano per fornirvi ulteriori spiegazioni. La partenza è stanotte, avete due ore per prepararvi e farvi trovare all’ingresso del settore P. Addio.» Quando se ne andò, nella stanza calò un silenzio inquietante. La tensione era palpabile. Tutti e quattro eravamo rimasti impietriti da quella notizia, e perfino gli sguardi dei due asiatici avevano perso la solita presunzione. Markus mi fissò, spaventato.
«Io non sono pronto! Non possiamo andare già adesso! Cosa ci succederà?»
«Non lo so, Markus. Ma non sappiamo ancora cosa dovremo fare… Lo Psykines non ha parlato di partecipare ai combattimenti, perciò non ti agitare…» cercai di rassicurarlo.
«Giusto, magari è solo una missione esplorativa… Magari non è un pianeta ostile o con conflitti in corso… no?» domandò, speranzoso.
«Esatto» risposi, anche se sapevo di mentire. I due Psykines erano stati chiari, quel giorno, nella zona settoriale: il pianeta Bruno era in guerra e le Cheimatos stavano perdendo. Mi dispiace mentirti, Mark, ma non ha senso alimentare il tuo panico, ora, pensai. «Meglio raggiungere i nostri Maestri, adesso, non credi?»
Uscendo, notai Kirene ad attendermi in un angolo. Quasi non la riconobbi a causa del vestito lungo e chiaro che indossava, che assomigliava a un moderno abito da sera. «Sei già stato convocato» disse, con la sua solita tranquillità, non appena mi fui avvicinato.

«Sì… ma non credo di essere pronto. Mi hai insegnato tanto, molte tecniche diverse, ma non penso di essere in grado di…»
«Le tecniche sono prigioni del corpo, non limitarti a esse. Devi andare oltre» m’interruppe lei. «Abbiamo addestrato la tua mente durante questi allenamenti, lasciala libera e tutto andrà bene. Sarai assegnato alla Legione di Prìmari nel ruolo di assaltatore, sei l’unico Umano che farà parte di questo gruppo. Ricorda ciò che ti ho insegnato: in una Legione non esiste il singolo. Salva la vita di un compagno e salverai la tua, tieni la mente libera e niente potrà imprigionarti. Se hai domande è il momento di porle.»
«Cosa devo fare?» le chiesi, spaventato, guardandola negli occhi.
Mentre mi rispondeva, la sua iride sinistra mutò colore e divenne di un intenso blu acceso. «Sii libero… Ora va.»
Kirene mi lasciò con quelle parole e si allontanò. Vidi Markus par- lare con il suo allenatore, uno Psykines alto più o meno quanto noi e decisamente più robusto rispetto ai membri della sua specie. Gli altri due umani, invece, discutevano tra di loro. Decisi dunque di prepararmi e di raggiungere il settore P, in attesa della partenza.
Furono le ore più lunghe della mia vita.

CAPITOLO 1

CAPITOLO 1: IL RISVEGLIO

«Ehi! Svegliati!»
Quelle parole mi esplosero in testa.
«Sono sveglio» risposi con voce roca, ancora addormentata.
«Tutto bene?»
La testa mi scoppiava, sembrava mi avessero bucato il cranio con un trapano. Cercai di riordinare le idee, trattenendo il senso di nausea che mi stringeva lo stomaco.
«Più o meno» dissi, con tono sottile.
La voce di chi aveva parlato, maschile e bassa, non mi era famigliare. Cosa sta succedendo, sto sognando? pensai confuso. Aprii gli occhi a fatica e mi guardai attorno, ma con scarsi risultati. La vista era annebbiata, sfocata.
«So cosa stai pensando.» Le mie riflessioni furono interrotte da quella voce. «No, non hai bevuto troppo» disse ridendo «e no, non stai nemmeno sognando… purtroppo.» Poi tornò seria. «Sono Markus Runks, ma puoi chiamarmi Mark. Qual è il tuo nome, amico?»
Iniziava a tornarmi la vista e subito mi resi conto di essere in una sorta di stanza ospedaliera. Ero sdraiato su un lettino rigido e stretto, non particolarmente comodo. Il soffitto era di un bianco accecante, monocorde, senza la minima variazione. Sedendomi, notai una figura china sul bordo della brandina accanto alla mia: Markus era un ragazzo robusto, con gli occhi azzurri, e aveva una strana garza gelatinosa e trasparente, dalle sfumature bluastre, che gli avvolgeva la testa, come una sorta di turbante.
«Puoi chiamarmi Leon…» cominciai a rispondere, a fatica, ma una fitta alla testa mi interruppe. Appoggiando la mano sulla fronte, mi accorsi di avere una medicazione simile a quella del mio compagno di stanza.
«Piacere di conoscerti, Leon. Come ti senti? Immagino tu sia disorientato e dolorante.»
«Sto bene, grazie… Ho solo un leggero mal di testa.» Rimasi in silenzio qualche minuto, cercando di ricordare. «Dove mi trovo? Cos’è successo?» domandai allora. Mille domande mi correvano per la testa, ma con quell’emicrania pensare era troppo complesso.
Mi massaggiai delicatamente gli occhi, dopodiché mi guardai intorno cercando qualche indizio per capire cosa stesse accadendo. La stanza era pressoché vuota, le pareti spoglie e lisce, non si riusciva neanche a individuare una porta o una finestra. Notai solo un paio di mensole e degli armadietti, anch’essi bianchi. Girandomi verso il ragazzo, chiesi: «Sai dove ci troviamo?».
Markus fece un sorriso che mostrava più preoccupazione che serenità. Stava per rispondere, quando una minuscola parte della parete si mosse rivelando un accesso. Una piccola creatura, non più alta di un metro, entrò a passo svelto, avvicinandosi a noi. La osservai mentre avanzava: era molto minuta e con una strana conformazione del cranio, più grande del normale; la fronte era allungata e accentuata, e i pochi capelli lunghi e spessi, simili ad antenne bluastre, ondeggiavano lentamente, raccolti in una coda di cavallo. La creatura sembrava non avere occhi da quanto questi erano stretti, e anche il naso e la bocca, per quanto visibili, risultavano molto piccoli.
«Hai ripreso coscienza, molto bene! Riesci a capire ciò che sto dicendo?» disse, con voce femminile, fermandosi davanti al mio letto.
Guardai Markus per un istante, interdetto, dopodiché osservandola risposi: «Sì… riesco a capirla».
Avevo molte domande da porle, ma mi confondeva e incuriosiva al punto che non riuscivo più a parlare. Mentre cercavo di prendere coraggio e di aprir bocca, la creatura sfilò da sotto al lettino un dispositivo elettronico, simile a un tablet. Per qualche secondo lo studiò, poi lo ripose e, andandosene, ci raccomandò di riposare.
Appena uscì dalla stanza, la mia confusione fu sostituita da un unico pensiero: Quella non è umana! Ma chi è? Dove siamo? Che sta succedendo?. Agitato, cercai di scendere dal letto, ma le parole di Markus mi bloccarono.
«È meglio se resti seduto ancora un po’, amico, hai appena subito un’operazione.»
«Un’operazione?» esclamai, spaventato. «Abbiamo avuto un incidente?»
«Non proprio, ma non ti preoccupare: a breve ricorderai tutto. Parlami di te. Da dove vieni? Cosa fai nella vita? Dimmi cosa ricordi… Ti aiuterà a recuperare la memoria.»
Non so esattamente perché, ma la voce di Markus mi tranquillizzava. Alla lontana mi ricordava quella di un vecchio amico d’infanzia.
«Sono uno studente universitario. Ho passato gran parte della mia vita in palestra a praticare arti marziali e abito in un piccolo paese del Nord Italia, vicino a Milano.» Rimasi qualche secondo in silenzio, immerso nelle memorie che stavano affiorando, poi continuai. «Tu, invece?»
«Ah, bella l’Italia! Io vengo da New York, la Grande Mela. Sono un ingegnere, inventore, armaiolo… playboy e filantropo!» ribatté il ragazzo, scoppiando a ridere.
«E magari hai anche un’armatura di ferro, eh?» domandai, ironico.
«Citazione colta! Sei un amico nerd, dunque!»
«Diciamo di sì… Quindi di che ti occupi? Oltre a sconfiggere il male con i vendicatori, intendo.»
«Ero un contabile, in banca. Una vita piena di emozioni» rispose, ridendo.
«Be’, dai, ogni lavoro è un buon lavoro, se fatto con passione! O almeno, così dicono» replicai, divertito. «Parli bene l’italiano, lo hai studiato o sei stato in Italia per lavoro?»
«Non per vantarmi, ma parlo correttamente tutte le lingue conosciute dell’universo» esclamò allegro.
«Beato te. Io non conosco a fondo neanche la mia lingua, figurati le altre.»
Markus tornò serio e incrociò le braccia al petto. «Sono sicuro che anche tu ormai sei in grado di comprenderle tutte, dato che non sto parlando in italiano.»
Restai in silenzio qualche istante. Quella frase aveva innescato qualcosa, dentro di me… All’improvviso, come un lampo di luce che illumina una stanza buia, mi tornò in mente ogni cosa: ricordai dove eravamo e persino cosa fosse successo.
«Siamo su una nave spaziale… e abbiamo subìto un’operazione per poter comprendere i vari linguaggi dell’universo…» dissi, con un filo di voce, quasi faticando a crederci.
«Vedo che inizia a tornarti la memoria! Ci hanno sistemato anche qualche piccola imperfezione: vista, udito e via discorrendo… La cosa migliore è che lo hanno fatto gratis! Per fortuna, aggiungo, visto che non credo che la mia assicurazione sanitaria copra queste spese!»
Allora era vero, la persona entrata prima non era umana e neppure un’allucinazione… Tutto iniziava a prendere forma, tutto diventava reale. Ero lì per mia stessa volontà!
Mi tornò in mente il pianto di mia madre il giorno della partenza, la tristezza e la preoccupazione dei miei famigliari e amici, il sorriso forzato che avevo mostrato per cercare di tranquillizzarli. Il destino…
«Sì, ora ricordo, abbiamo accettato noi di venire qui. Ma non dovrebbero esserci anche altre due persone?»
«Esatto! Non so esattamente dove siano, ma presumo siano arrivate a destinazione. Ci hanno separati… A quanto pare, e qui cito le parole del medico, noi avevamo più operazioni da dover fare per essere riparati e ottimizzati.»
«Riparati e ottimizzati… Cosa siamo, macchine?» esclamai, infastidito.
«Dai, non ti offendere, hanno una cultura diversa. Magari per loro è normale parlare così! Comunque, mentre dormivi mi hanno illustrato il funzionamento di questa specie di traduttore. Provo a spiegartelo ma abbi pazienza, non ho capito proprio tutto.»
Feci un cenno con la testa e, incuriosito, mi apprestai ad ascoltarlo.
«A quanto pare è una sorta di stimolatore neurale che amplifica le nostre capacità cerebrali, e in particolare le informazioni che udiamo o vediamo. Ci permette di rielaborarle utilizzando la lingua che conosciamo, di tradurle in modo inconscio e involontario nel nostro idioma… In questo modo, ognuno di noi continua a parlare, pensare, ragionare nella propria lingua, ma chi ascolta percepisce ciò che diciamo nella sua. In alcuni casi, poi, il traduttore ci fa parlare in altre lingue, seppur non ce ne accorgiamo. Ad ogni modo, non è una traduzione letterale, ma di senso. Proprio per questo motivo mi è stato difficile comprendere nello specifico il suo funzionamento… Penso che essendo una tecnologia sconosciuta agli esseri umani, per chiunque di noi sia impossibile capirla appieno senza un’adeguata spiegazione o uno studio approfondito.»
«È davvero incredibile!» esclamai, meravigliato. «E a proposito di capire… c’è ancora un aspetto che non ricordo, ovvero il perché ci hanno presi.»
L’atmosfera scherzosa che c’era stata fino a quel momento improvvisamente scemò e Markus divenne molto serio.
«Ti racconterò ciò che il mio governo mi disse prima di partire. Forse, però, è meglio che tu riposi ancora un po’, prima…»
«Non preoccuparti, sto bene. Mi sembra di aver dormito per giorni!» replicai, stiracchiando i muscoli.
«Quasi cinque, per l’esattezza. Comunque, cercherò di essere sintetico… Svariato tempo fa, alcune forme di vita intelligenti contattarono i nostri governi. Questi ultimi istituirono un ente straordinario chiamato “Organizzazione Mondiale per l’Interazione fra Uomo e Alieno” o “W.O.A.M.I.”, formato da intellettuali, scienziati e uomini di potere di vari Stati del mondo. Costoro erano incaricati della comunicazione con le razze aliene, con lo scopo di ottenere conoscenze. Gli extraterrestri, però, non sembravano intenzionati a stabilire un vero legame: non fornirono nessuna informazione che riguardasse loro o la tecnologia che utilizzavano per muoversi nello spazio. Chiedevano soltanto di poter effettuare delle ricerche su di noi, e in cambio avrebbero concesso all’ente qualcosa che non mi fu rivelato. Probabilmente si trattava di conoscenze tecnologiche che avrebbero permesso al W.O.A.M.I. di guadagnare parecchio dato che, nonostante i rischi, i suoi rappresentanti accettarono… Tuttavia c’era una condizione da rispettare, ovvero che la presenza degli alieni non fosse rivelata al resto della popolazione mondiale per tutto il periodo di ricerca. Dopo quasi un decennio, anche se pare che il primo contatto avvenne circa settant’anni fa, queste entità scelsero quattro individui.»
«Quindi c’era già stato un contatto con loro! La scelta non è stata casuale!»
«Esatto. Be’, da qui in poi dovresti sapere cos’è successo.»
«Sì. Improvvisamente, gli alieni si mostrarono al mondo intero… Fu uno shock per tutti!» ricordai, pensieroso.
«Vero, soprattutto dopo che dissero cosa volevano! Fu molto difficile per i vari governi mantenere il controllo delle popolazioni.»
«È comprensibile. Gli alieni sono comparsi all’improvviso, annunciando una guerra e chiedendo di poter portare via quattro persone senza specificarne il motivo… Hanno avuto parecchio tatto» dissi, sorridendo.
«Hanno chiarito, però, che quella guerra non riguardava noi Terrestri direttamente… Non ancora, perlomeno… e hanno perfino concesso ai quattro prescelti di decidere se andare con loro oppure no. Anche se la stessa possibilità non mi è stata data dal mio paese» ammise Markus, tristemente.
«Sei stato obbligato a venire qui?»
«Già. Gli americani vogliono saperne il più possibile sugli alieni, nonostante non abbiano la certezza di un mio ritorno. Diciamo che mi stanno usando. Ma cosa poteva fare un semplice contabile contro la volontà del suo Paese?» Gli occhi gli diventarono lucidi. «Se devo essere sincero, amico, io non sarei mai voluto venire qui» concluse, mentre una lacrima gli scorreva sulla guancia.
Restammo qualche minuto in silenzio.
Non era una situazione facile per nessuno dei due ed elaborare tutto ciò che stava accadendo richiedeva tempo. Dopo un attimo, Markus si voltò verso di me e chiese: «Tu perché sei qui?».
Ci misi qualche secondo per rispondere. Pian piano i ricordi stavano tornando, ma con loro anche tutte le emozioni provate.
«Per mia scelta, e non è stata una decisione facile… ma non potevo perdere quest’occasione.»
«Quindi sei venuto in cerca di avventura e di fama, o perché non ti piaceva la vita che conducevi sulla Terra?»
«No, assolutamente, non posso lamentarmi della mia vita, ma… non potevo rinunciare» ribadii, guardandolo negli occhi.
Si sta avverando, allora… pensai, malinconico, alzando lo sguardo verso il soffitto bianco.
«Comunque,» riprese Markus «ci sarà un motivo se hanno scelto noi, non credi? Non ho idea di quale sia, ma suppongo riguardi una nostra specifica struttura fisiologica. Altrimenti non avrebbero senso i dieci anni di studi. Anche se non capisco come ci abbiano studiato… Spero non ci rapissero la notte e usassero strane sonde!» disse, ridendo.
«Effettivamente, sarebbe inquietante.»
Avevo risposto a bassa voce, pensieroso, con lo sguardo fisso al soffitto e le mani incrociate dietro la nuca.
Per qualche minuto non parlammo. Entrambi eravamo immersi nelle nostre riflessioni, nei nostri ricordi. Ma il silenzio durò poco. Una voce elettronica, che sembrava uscire dalla parete di destra, ci esortò ad alzarci e a camminare fino alla stanza successiva. Non appena si fu concluso l’annuncio, una nuova sezione del muro si mosse, rivelando un varco. Markus e io ci scambiammo una rapida occhiata e, senza dir niente, ci alzammo. Scendere da quel lettino non fu facile: avevo le gambe intorpidite e camminare mi risultava difficile, anche se dopo tanta immobilità lo trovavo comunque piacevole. Una strana luce proveniva da oltre la porta e, varcata la soglia, Markus e io restammo sbalorditi.
«Un parco!» esclamai, mentre i miei occhi si abituavano a quel verde intenso. «C’è un parco all’interno dell’astronave!»
«Forse lo usano per la riabilitazione post operazione» disse Mark guardandosi attorno, come se stesse studiando il posto. «Ci voleva proprio una camminata in mezzo alla natura, per riprendersi e riordinare le idee, anche se probabilmente tutto questo è artificiale…» Mosse qualche passo, mentre con la mano sfiorava alcuni fili d’erba altissimi, e poi aggiunse: «Ti ricordi il giorno della tua partenza? È passata solo poco più di una settimana, ma sembrano essere trascorsi dei mesi».
Feci un timido sorriso, cercando di nascondere l’ansia che quella domanda scatenava in me. Poi, quasi senza accorgermene, cominciai a raccontare.
«È stato molto doloroso, quel giorno… Faceva caldo, sembrava di essere in estate più che in primavera. Fino all’ultimo istante la mia famiglia ha cercato di dissuadermi dal partire. Effettivamente è stata una scelta molto egoista da parte mia, poiché non ho deciso solo di andarmene, ma anche di abbandonare tutti e forse di non vederli e sentirli mai più. In queste occasioni ci rendiamo conto che la nostra vita non appartiene solo a noi, ma in parte anche alle persone che ci vogliono bene…» Sospirai, stringendo i pugni. «Nonostante tutto, però, non mi sono lasciato convincere e ho deciso di partire lo stesso. I miei parenti mi hanno accompagnato nel luogo stabilito, uno spazio isolato, nascosto in mezzo a un boschetto con un piccolo stagno, a pochi chilometri da casa mia. Mi capitava spesso di andare lì ad allenarmi o a rilassarmi, prima di tutto questo.» Socchiusi un attimo gli occhi, ripensando a quegli alberi, al silenzio che li ammantava. «Era il posto ideale per evitare che si radunassero troppi curiosi. Ad aspettarmi c’era solo un veicolo cilindrico di pochi metri, grigio metallizzato, appoggiato a terra con quattro piccoli sostegni. Aveva il portellone aperto, come per invitarmi a entrare. Non c’era nessuno, nessun alieno, nessuna creatura… È stato uno dei momenti più tristi della mia vita. Ma, nonostante l’ansia e la paura, ero anche molto eccitato e incuriosito. Tra abbracci e pianti, ho salutato tutti e mi sono avvicinato al portellone. Non vedevo nulla all’interno… Allora mi sono voltato e con il braccio ho fatto un ultimo cenno di saluto, sforzandomi di mantenere il sorriso, dopodiché sono entrato.» Gli occhi mi si riempirono di lacrime ricordando quel momento. «Subito sono stato raggiunto da due creature molto alte, dalle sembianze umanoidi, che si tenevano coperte per celare il loro aspetto. Mi hanno accompagnato in una stanzetta spoglia, lasciandomi da solo per qualche tempo. Quando sono tornate, mi hanno consegnato dei fogli, delle pastiglie e una bottiglia di un liquido che sembrava acqua. Sui documenti c’erano scritte delle istruzioni nella mia lingua… Mi consigliavano di assumere tutte quelle sostanze per sopportare il decollo e mi spiegavano che, una volta partiti, mi avrebbero sottoposto a una serie di analisi e operazioni per prepararmi al meglio a questo viaggio. Ero talmente agitato in quel momento che, senza pensarci due volte, ho ubbidito. Il resto lo sai… mi sono risvegliato “ottimizzato”, citando le loro parole.» Mentre parlavamo, percorrevamo il parco avanti e indietro, iniziando a recuperare sia la stabilità nelle gambe sia i ricordi. L’aria era fresca e l’odore piacevole, era difficile pensare che ciò che ci circondava fosse artificiale e, soprattutto, che ci trovassimo all’interno di una navicella spaziale.
Feci un lungo respiro e poi domandai a Markus: «E tu, ricordi il giorno della partenza?».
Per tutta risposta, lui mi diede qualche pacca sulla spalla, come a volermi tranquillizzare, poi iniziò a raccontare.
«Come sai sono stato costretto ad accettare… Mi hanno costretto a rivelare loro il giorno della partenza e a non dirlo a nessun altro.
Non ho fatto neppure in tempo a salutare tutti i membri della mia famiglia, dato che mi hanno tenuto con loro parecchio tempo prima del viaggio…» disse, con voce soffocata dalla tristezza. «Il luogo della partenza era una nostra base militare. Sono stato accompagnato lì da alcuni agenti del W.O.A.M.I. e dell’esercito, e qualcuno ha perfino cercato di salire sulla navicella con me, ma gli alieni gli hanno proibito l’accesso. I miei superiori mi hanno ordinato di raccogliere più informazioni possibili, ricordandomi che dovevo sentirmi onorato di poter servire il mio Paese in tal modo, poi mi hanno lasciato andare. Una volta entrato, ho ricevuto la tua stessa accoglienza, anche se le “mie” creature incappucciate erano estremamente basse. Ho riletto le carte almeno venti volte prima di prendere coraggio e ingerire quelle pillole, e poi mi sono svegliato, tre giorni prima di te. Ti dirò la verità, amico, sono stati i tre giorni più lunghi della mia vita. Chiuso in una stanza vuota, confuso e con un compagno in coma. In situazioni come queste, avere troppo tempo per riflettere è negativo.»
Continuammo a camminare nel parco. Anche se mi ero accorto che l’erba era sintetica, la trovavo comunque piacevole e rasserenante.
Dopo qualche tempo, fummo raggiunti da quella specie di infermiera che ci aveva assistito in precedenza.
«Percepisco che vi siete rimessi» disse. «Le vostre operazioni sono state un successo, in poco tempo dovreste raggiungere la forma ottimale. Quando lo desiderate tornate nella vostra stanza: troverete del cibo, che vi aiuterà a recuperare le forze. Tra non molto arriveremo a destinazione e inizierete subito l’addestramento.» Finito di parlare se ne andò, con la stessa rapidità con cui era giunta, senza darci il tempo di replicare. Facemmo un ultimo e silenzioso giro in quel parco stupendo e poi rientrammo.
Tornati nella nostra stanza, notammo le stesse sostanze dateci alla nostra partenza, piccole pastiglie nere e bianche affiancate da una bottiglietta con un liquido trasparente.
«Spero non sia sempre così il cibo da queste parti» dissi, ridendo, con un’occhiata al mio compagno. Dopo aver ingerito le pillole mi sdraiai sul lettino… Gli occhi fissavano il candido soffitto, mentre pian piano la vista si offuscava.
Chissà cosa ci aspetta, pensai, con un brivido.
Il mio viaggio era iniziato.

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